Intanto a Londra

Le lancette dell’orologio continuano a girare inesorabilmente e la scadenza del 29 marzo fissata per la definizione della Brexit si avvicina sempre più veloce, ma non c’è ancora una soluzione in vista per il travagliatissimo divorzio chiesto dal Regno Unito all’Unione europea. La flemma e il pragmatismo che abbiamo sempre ammirato nei britannici sembrano sostituiti da forti affanni e inedite rigidità. Il risultato a oggi è una profonda incertezza, che non aiuta Londra e preoccupa Bruxelles.

Ne abbiamo avuto una riprova nei giorni scorsi, quando il Primo Ministro May ha sottoposto all’esame del suo Parlamento l’accordo faticosamente negoziato con la Commissione, presentandolo come la migliore intesa raggiungibile allo stato attuale. Westminster ha respinto la proposta con una sonora bocciatura, cui hanno contribuito molti parlamentari dello stesso partito conservatore di Theresa May: da quasi un secolo una mozione del governo non era battuta con uno scarto di voti così ampio (230).

Contro l’accordo si sono infatti ritrovate, in una larga “coalizione negativa”, forze opposte tra loro, dai fautori di una hard Brexit contrari al testo di May che non avrebbe garantito il pieno distacco del Regno Unito dall’Ue, ai deputati nord-irlandesi, ai sostenitori del Remain, ai laburisti di Corbyn interessati a far cadere il governo e a favorire nuove elezioni. Poi il Primo Ministro ha superato indenne una mozione parlamentare di sfiducia voluta dall’opposizione, ma resta l’incognita su come si potrà procedere nelle poche settimane ancora utili.

…e in Europa

Mentre il governo britannico valuta possibili margini per cercare di strappare qualche nuova concessione a Bruxelles e ripresentarsi al Parlamento con un accordo più appetibile di quello respinto, alla Commissione e negli altri Paesi europei si avverte ormai una certa stanchezza per il processo innescato dall’esito del referendum del giugno 2016. Consultazione improvvida, con il senno di poi, anche perché inquinata da molte affermazioni propagandistiche infondate, oltre che distorta da una timida difesa delle ragioni della permanenza nell’Ue da parte dei Remainers (a fronte della foga iconoclasta dei Brexiteers).

Comunque, è acqua passata. Ora gli europei devono rispettare la volontà del popolo, del Parlamento e del governo britannico, nell’auspicio che, se Brexit deve essere, essa avvenga nella forma più consensuale e ordinata possibile, nell’interesse di entrambe le parti. La parola è ai britannici. Ancora una volta saranno loro a dover chiarire la direzione di marcia, speriamo tempestivamente, per scongiurare quella che tutti riconoscono come la peggiore l’opzione, l’uscita senza accordo (no deal).

Le variabili possibili

Sul tavolo ci sono in teoria più variabili. Oltre al mancato accordo, che comporterebbe una separazione traumatica con conseguenze negative immediate tra l’altro sulla circolazione di persone e merci, si può immaginare un accordo leggermente ritoccato, a favore dei britannici, ma le resistenze dei negoziatori comunitari a riaprire la trattativa sono note e comprensibili. Affiora inoltre, ma con scarsissima convinzione, l’ipotesi di un secondo referendum, che urta contro forti riserve di opportunità e il cui esito d’altra parte non sarebbe scontato. E ancora si fa strada la possibilità di guadagnare tempo, attraverso una proroga di qualche mese del termine fissato dalla procedura ex art. 50 del Trattato (29 marzo).

Il fatto è però che al momento non si intravede alcuna maggioranza parlamentare disposta a imboccare questa o quella strada. Theresa May dovrà quindi muoversi, rapidamente, nelle file del governo e gli scranni di Westminster tra le insidie di molti veti incrociati. C’è da augurarsi che abbia successo e che un sussulto di sano pragmatismo la aiuti a tirar fuori il Regno Unito dal pantano in cui è scivolato.