Un gruppo di ricercatori di un centro studi tedesco, non particolarmente noto ma distintosi in passato per posizioni contrarie all’Unione Europea, ha cercato di stimare con una metodologia statistica quali sarebbero stati i guadagni o le perdite di alcuni paesi dell’eurozona nel caso in cui essi non fossero entrati nell’euro. Secondo i loro calcoli, l’Italia e il Portogallo sarebbero i grandi “perdenti” (il prodotto pro-capite nel 2017 sarebbe stato nei due paesi rispettivamente del 33 per cento e del 31 per cento superiore se essi non fossero mai entrati nella moneta unica), mentre la Germania avrebbe tratto vantaggio dall’unione monetaria (la perdita nello scenario alternativo, misurata allo stesso modo, sarebbe stata pari al 9 per cento).
L’articolo, non pubblicato su alcuna rivista qualificata e quindi non verificato da altri ricercatori, non sarebbe degno di menzione se non fosse per il fatto che il suo messaggio politico è stato immediatamente catturato dai media; cosa che non sorprende, dato l’approssimarsi delle elezioni europee e la tentazione da parte dei canali di informazione di usare qualunque mezzo disponibile per attirare visibilità per sé stessi e favori alla rispettiva parte politica. Poiché invece ciò è avvenuto (un canale televisivo italiano lo ha citato qualche giorno fa), e potrebbe avvenire ancora, sembra necessario spiegare come i risultati sono stati ottenuti e quale affidamento si possa fare su di essi. Per inciso, vale la pena di menzionare che la stessa metodologia è stata usata anche in un precedente articolo, sempre sui guadagni e le perdite dell’euro, ma questa volta pubblicato in una nota rivista, con risultati ben diversi.
La procedura statistica utilizzata comporta sostanzialmente due fasi:
i. stimare la relazione fra la crescita economica di un dato paese dell’eurozona con paesi che non hanno adottato l’euro prima dell’avvio della moneta unica (quest’ultimo è fissato, chissà perché, nel 1996 anziché nel 1999);
ii. estrapolare la crescita dello stesso paese nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, usando come riferimento la stessa relazione con il paese extra-euro.
Ci sono almeno due “trabocchetti” nei quali i ricercatori del centro tedesco ingenuamente cadono. Il primo è che, dovendo confrontare la crescita di paesi appartenenti a un’area fortemente integrata (l’eurozona, appunto) con paesi che all’area non appartengono, per forza di cose è necessario usare paesi extra-euro con cui i paesi dell’euro hanno ben poca relazione. Per esempio, la presunta “perdita” del Portogallo viene valutata in base agli andamenti di paesi come l’isola Barbados, Israele, Nuova Zelanda e Gabon, con cui il Portogallo non ha alcuna relazione economica, mentre quello della Spagna è costituito per il 70% dal Regno Unito e per il 30% dalla Turchia. Anche le stime per l’Italia soffrono dello stesso problema essendo ottenute usando come riferimento solo paesi anglosassoni e che rappresentano appena il 5 per cento dell’interscambio italiano (Australia e Regno Unito). Difficile che questi paesi possano da soli fornire una stima affidabile della performance economica dell’Italia, con o senza l’euro; più facile pensare che la relazione stimata sia spuria e inaffidabile. Il comparator per la Grecia, infine, è composto per circa il 40% ciascuno da Barbados e Israele, per il restante (poco meno del) 20% da Israele. Oltre il 56% dell’Olanda è spiegato da Nuova Zelanda, Giappone e Singapore. L’impressione dunque di una elevata casualità nella scelta dei comparator è forte. Né il metodo da conto del peso molto differente del settore pubblico nelle diverse economie né del mercato del lavoro e del capitale umano.
L’Euro, capro espiatorio designato
Il secondo problema è che la metodologia, per come è costruita, attribuisce automaticamente all’euro – capro espiatorio designato – qualunque cambiamento che sia avvenuto nei paesi in questione attorno alla metà degli anni ‘90 – la curiosa data di partenza cui si è già accennato. Ne deriva una distorsione dei risultati, perché in quegli anni sono accadute anche molte altre cose che possono aver influenzato gli andamenti economici dei paesi stessi.
Come noto a tutti, proprio verso la metà degli anni ’90 si è inceppato il motore che aveva alimentato la crescita del nostro paese nei primi decenni del dopoguerra. Il motore era l’aumento della produttività, ossia della quantità e valore del prodotto che l’economia italiana riusciva a generare per ogni data quantità di lavoro, di capitale e di altri fattori produttivi impiegati. Ovunque e da sempre, la crescita della produttività è alla base dell’espansione del reddito pro-capite, ossia dello standard di vita medio di una popolazione. Senza aumento della produttività, il reddito pro capite non può aumentare in modo duraturo. La stasi della produttività italiana è dipesa, secondo gli studi più seri e credibili, da una serie di cause: l’inadeguatezza cronica di servizi pubblici; l’inefficienza dell’amministrazione pubblica; la lentezza della giustizia; la carenza di investimenti ad alto contenuto di innovazione e valore aggiunto; l’insufficiente formazione della forza lavoro; il deterioramento del capitale infrastrutturale, a sua volta legato all’insufficienza e alla bassa qualità degli investimenti pubblici; e via elencando. Tutte cause che attengono alle determinanti reali della crescita, non alla moneta.

Il nostro compito è guardare al futuro
Può l’euro aver giocato un ruolo in tutto questo? Non è da escludere che l’euro, mettendo l’Italia sullo stesso piano monetario di altre economie europee e impedendo il ricorso alla svalutazione sistematica della moneta per compensare le perdite di competitività, abbia reso più evidenti quelle inadeguatezze. Tuttavia, il declino che incombe sulla produttività del paese dipende alla lunga da quelle inadeguatezze e solo da esse, non dall’euro. L’adozione dell’euro ha reso ancor più importante e più urgente rimuoverle; una lezione che alcuni paesi europei hanno imparato meglio dell’Italia.