Sempre più spesso sentiamo parlare della sfida lanciata da alcuni Stati membri, attori di politiche illiberali e antidemocratiche che collidono con i valori fondanti dell’Unione europea. Le sue istituzioni hanno l’onere di difenderli, ma con quali strumenti?

Nella prospettiva delle elezioni europee e degli schieramenti che si vanno delineando, sembra doverosa una riflessione sulle regole dello Stato di diritto e sulle libertà fondamentali su cui si è basato e continua a costruirsi il progetto dell’Unione europea. Dignità umana, libertà, uguaglianza e Stato di diritto sono alcuni dei valori menzionati espressamente all’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, mentre all’articolo 7 si delinea la procedura speciale da seguire in caso di gravi violazioni di tali diritti fondamentali e principi democratici da parte di uno Stato membro, con la possibilità per l’Unione di attivare meccanismi preventivi di censura, ma anche sanzionatori. Tale strumento fu concepito per la prima volta nel 2000, in fase di elaborazione del Trattato di Nizza, quando quattordici Paesi della UE (allora il numero degli Stati membri era 15) ritennero di isolare politicamente il governo austriaco guidato da Wolfang Schuessel con il sostegno del partito nazionalista di Jorg Haider, le cui posizioni erano considerate incompatibili con i valori fondanti della UE.

Articolo 7 in difesa dei valori UE: maneggiare con cura

L’articolo 7 del TUE, al paragrafo 1, indica un meccanismo preventivo per censurare uno Stato membro quando vi sia un «evidente rischio di violazione grave dei valori» dell’Unione europea. Se ciò non fosse sufficiente, il paragrafo 3 prevede anche sanzioni, da applicare però solo in presenza di una «violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro» dei valori di cui all’articolo 2. Le sanzioni possono includere la sospensione di alcuni dei diritti dello Stato membro, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.

Vista l’alta tensione politica che vi è sottesa e le conseguenze molto pesanti che può generare, l’attivazione della procedura ex articolo 7 è alquanto complessa e si discosta dalle ordinarie procedure di infrazione, di cui agli art. 258-260 del TFUE, che riguarda i normali casi di inadempimento degli obblighi dei trattati, quali il rispetto delle regole fiscali, l’attuazione delle direttive comunitarie e di tutti gli altri obblighi derivanti dal diritto Ue. E mentre quest’ultime violazioni sono competenza della Commissione europea e della Corte di giustizia dell’Unione, l’attivazione dell’articolo 7 richiede sempre l’autorizzazione del Parlamento europeo.

Spesso evocato nell’ultimo decennio, l’articolo 7 ha ricevuto soltanto molto recentemente le prime e parziali applicazioni nei confronti di due Paesi, Polonia e Ungheria, entrambi facenti parte del cosiddetto gruppo di Visegrad, che include anche Slovacchia e Repubblica ceca, a loro volta sotto la lente della Commissione europea. Perché?

L’Unione in difesa della libertà e dei diritti: il caso Ungheria

Il Governo è attualmente guidato da Viktor Orban, leader del partito nazionalista Fidesz e appoggiato anche dal partito di estrema destra nazionalista Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore). Nella plenaria dello scorso 12 settembre 2018, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione allegando una proposta di decisione del Consiglio in merito alla constatazione dell’esistenza in Ungheria del rischio di violazione dei valori fondanti dell’Unione. L’esito del voto è stato sorprendentemente chiaro. La relazione in cui l’eurodeputata verde olandese Judith Sargentini ha elencato i diversi casi di violazione dello stato di diritto in Ungheria, è stata approvata con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astensioni.

La votazione è giunta dopo un lungo dibattito. Prima del voto il premier Orbán ha lanciato un appello accorato contro l’approvazione del Rapporto Sargentini, ma il dossier si trascinava ormai da anni, tanto da indurre la Commissione europea ad aprire numerose procedure di infrazione ai danni di Budapest. All’Ungheria vengono infatti rimproverati casi sospetti che mettono a rischio l’indipendenza della giustizia, la libertà della stampa o i principi fondamentali in difesa degli immigrati. Sotto osservazione anche la riforma del codice del lavoro soprannominata, dai critici, “legge sulla schiavitù”, poiché aumenta le ore di straordinario che i datori di lavoro possono chiedere ai dipendenti, triplica i tempi massimi di pagamento degli straordinari e prevede che le trattative possano essere fatte direttamente tra dipendenti e aziende, senza la contrattazione dei sindacati.

L’Unione in difesa della giustizia e della stampa: il caso Polonia

Il Governo attuale è guidato dal banchiere Mateusz Morawiecki, sostenuto dal partito nazionalista e euroscettico Giustizia e libertà che fa capo a Jeroslaw Kacinski.  La Commissione europea ha annunciato di avere iniziato le procedure per l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona contro la Polonia per violazione dei diritti fondamentali in materia di giustizia e libertà di stampa. È la prima volta che la Commissione attiva questo speciale procedimento che, se dovesse arrivare fino alla fine, potrebbe fare perdere alla Polonia il diritto di voto nelle istituzioni europee.

Tra le cose che hanno indotto la Commissione europea ad attivarsi, il pacchetto di misure entrato in vigore a Varsavia che prevede di ridurre l’età di pensionamento dei giudici della Corte suprema a 65 anni. Abbassando l’età pensionabile per i giudici, la misura decisa a Varsavia mira a mandarne a casa 27 su 72 – più di uno su tre. Tra gli obiettivi della legge polacca, c’è anche il primo presidente della Corte, che vedrebbe terminare in largo anticipo il suo mandato di sei anni. Con particolare velocità, la Corte di giustizia dell’Unione europea è intervenuta per chiedere la sospensione immediata di questa controversa riforma.

Da rilevare, infine, la marcia indietro fatta dal Governo polacco dopo le proteste unanimi di tutto il mondo ebraico contro la legge che di fatto negava qualsiasi responsabilità della Polonia nell’Olocausto e prevedeva addirittura pene severe per chi avesse sostenuto pubblicamente il contrario.

L’Unione contro le discriminazioni: il caso di Slovacchia e Repubblica ceca

In Slovacchia, l’attuale Governo nazionalista ed euroscettico è guidato da Peter Pellegrini, già vice del suo predecessore Robert Fico dimessosi per il noto scandalo legato all’uccisione del giornalista Jan Kuciak.

Sebbene non sia stato invocato l’articolo 7 del Trattato UE, vale la pena menzionare l’attivazione di una procedura d’infrazione per violazione, da parte della Slovacchia, del diritto dell’Unione contro le discriminazioni, di cui sarebbero vittima, in quel Paese, gli appartenenti all’etnia rom. La Corte di giustizia dell’Unione, inoltre, ha rigettato il ricorso che era stato presentato nel 2015 da Ungheria e Slovacchia contro le decisioni di Bruxelles sulla ripartizione di quote di migranti tra gli Stati membri. La Corte, motivando il suo verdetto, ha sottolineato che la decisione di ripartire i migranti in quote da dividersi tra i paesi europei, è importante e irrinunciabile perché “contribuisce in maniera efficiente e rispettando proporzioni di quote ad aiutare i paesi, specie l´Italia e la Grecia, piú affollati dalle ondate migratorie”.

In Repubblica ceca, l’attuale Governo è sostenuto dal partito nazionalista di destra ANO (Azione dei cittadini insoddisfatti) fondato dal miliardario Andrej Babis. Il Presidente della Repubblica è, invece, Milos Zeman, noto per le sue posizioni euroscettiche e filo-russe.

Il governo ceco si è visto attivare una procedura d’infrazione per il rifiuto di partecipare al programma dell’Unione europea per la ripartizione tra gli Stati membri dei rifugiati. E anche contro la Repubblica ceca è stata attivata un’ulteriore procedura per la discriminazione degli alunni rom. A dire il vero, già nel 2007 la Corte europea dei diritti umani aveva sancito la violazione dei diritti dei bambini rom per discriminazione nell’accesso alla istruzione scolastica. Il 25 settembre 2014 la Commissione europea ha poi avviato una procedura d’infrazione contro la Repubblica ceca per violazione della normativa europea anti-discriminazione. Controversa è anche l’entrata in vigore di una modifica di legge ceca che consente ai comuni di dichiarare alcune zone a “comportamento socialmente patologico”, con accesso limitato ai sussidi per l’alloggio.