Nell’aprile 2018 la Cancelliera Merkel si recava a Washington per incontrare il Presidente Trump, in un vertice bilaterale mirante a contenere la politica protezionistica americana che già andava dispiegandosi nei confronti di Cina ed Europa. In quel vertice, durato poche ore e caratterizzato da toni ruvidi, il presidente Trump fece alla Cancelliera Merkel tre richieste: aumentare i contributi tedeschi alla spesa militare; rimodulare l’accordo per la costruzione del gasdotto ‘NorthStream’, che dalle rive di San Pietroburgo attraversa il Baltico per portare gas russo direttamente in Germania; ridurre il surplus commerciale della Germania nei confronti degli Stati Uniti. Al tempo scrissi provocatoriamente che era da tempo che non sentivo un leader politico fare richieste di stampo così marcatamente europeista. Oggi, a quasi un anno di distanza ed alla vigilia di cruciali elezioni europee, il paradosso continua purtroppo a persistere.
L’Unione Europea del post-crisi ha di fatto adottato un modello economico che si basa sulle esportazioni come principale motore di crescita, un dato testimoniato dal sostanziale avanzo di partite correnti dell’area (+3,2% quello europeo con il resto del mondo, +8.5% quello tedesco). Nell’unione monetaria a trazione renana, la compressione dei salari indotta dalle pressioni deflazionistiche, associate allo stretto controllo della spesa pubblica, sostiene la competitività necessaria ad alimentare le esportazioni, e da qui la crescita. Il controllo della spesa è a sua volta garantito dalla storica ‘esternalizzazione’ della spesa militare attraverso la NATO. In aggiunta, l’aumento della spesa per la sicurezza interna e la gestione dei flussi migratori di questi ultimi anni è stato a sua volta concentrato sui paesi della frontiera esterna dell’Unione (Italia, Spagna e Grecia in particolare) o sul bilancio europeo (l’assegno che l’UE versa alla Turchia per la gestione degli esuli siriani).
Quanto è sostenibile nel tempo questo modello di sviluppo dell’Europa? La risposta è: sino a quando gli Stati Uniti saranno disposti a tollerarlo, dunque verosimilmente poco. Perché l’attuale modello di crescita continentale abbia successo vi deve infatti essere la disponibilità del resto del mondo ad acquistare prodotti europei, dunque a mantenere continui deficit di partite correnti. Questo in particolare da parte americana, avendo gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni assunto il ruolo di ‘importatori mondiali’. Ugualmente, vi deve essere la disponibilità sempre degli Stati Uniti a continuare ad essere il maggior contributore della NATO.
Ma su entrambi i punti l’attuale amministrazione americana ha radicalmente cambiato orientamento. Sul fronte militare, è opinione ormai diffusa in Europa che l’attivazione dell’art. 5 della Carta atlantica (quello che impegna i partner al mutuo soccorso reciproco in caso di aggressione) sia in qualche modo politicamente subordinata da parte statunitense al raggiungimento del target di spesa concordato (2% del PIL in spesa militare), un target mancato da quasi tutti i grandi paesi europei.
Sul fronte della disponibilità ad assorbire gli eccessi di export provenienti dall’Europa, i messaggi che arrivano dagli Stati Uniti sono altrettanto chiari: in questi giorni il Dipartimento del commercio statunitense ha terminato le sue indagini sulle importazioni di automobili europee, e ha consegnato il suo rapporto al presidente Trump, che ha ora 90 giorni per prendere una decisione. Le indiscrezioni suggeriscono che il rapporto concluda, non a caso, che le importazioni di auto europee costituiscono una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, suggerendo tra le raccomandazioni una tariffa generale all’importazione di auto del 20-25%. Evidentemente l’argomentazione è pretestuosa, ma consentirebbe alla presidenza americana di avviare, così come già fatto con la Cina, un negoziato con l’Europa per ridurne le esportazioni.
In sintesi, i punti chiave del modello di crescita e sviluppo che l’Europa ha costruito negli anni del post-crisi non sono sotto il controllo dell’Unione europea. In aggiunta, per tutta una serie di articolazioni legate alle dinamiche dei differenziali di competitività, lo stesso modello non è stato in grado di contribuire a benessere ed occupazione dei cittadini europei in misura proporzionata tra i diversi paesi.
Oltre al paradosso di Trump unico leader politico che fa proposte europeiste, potremmo dunque sostenere che l’Europa ha, oggi più che mai, bisogno di una politica più sovranista, nel senso che l’Unione Europea deve ‘riprendere il controllo’ del suo modello di crescita, cambiando impostazione di politica economica. Come? Sostituendo la dipendenza dall’export (e dunque dal resto del mondo) con maggiori consumi e investimenti all’interno del mercato unico, che resta il più importante in termini di dimensioni a livello mondiale. Ergo maggiore flessibilità sul fronte della politica fiscale una volta che la stessa è coordinata a livello europeo. In questo senso vanno le proposte francesi di riforma dell’euro-zona, con la possibilità di introdurre un bilancio comune per l’area euro di dimensioni adeguate a compensare le difficoltà cicliche di alcuni stati membri.
In effetti, nel vertice di Meseberg dello scorso giugno, la Germania ha per la prima volta riconosciuto con la Francia che la stabilizzazione macroeconomica non è una questione da lasciare solo ai governi nazionali, ma una preoccupazione comune dell’area euro. Tuttavia mentre le proposte di Macron prevederebbero un bilancio operativo con capacità di spesa pari a diverse percentuali del PIL, la Cancelliera ha apertamente parlato di cifre non molto oltre qualche decina di miliardi di euro, ossia decimali di PIL. Contemporaneamente l’Olanda ed un gruppo di altri piccoli paesi continentali non vedono al momento l’esigenza di un bilancio comune in questo senso, né paiono favorevoli a rinunciare ad altre politiche europee per un suo finanziamento. Al tempo stesso, la politica fiscale italiana, con i suoi continui tentativi di forzare le regole comunitarie, mina alla base il clima di fiducia tra Stati membri che è presupposto essenziale per poter anche solo iniziare a discutere di una vera politica fiscale comune dell’euro-area.
Nelle prossime settimane Stati Uniti e Cina chiuderanno verosimilmente la loro vertenza commerciale con, tra gli altri accordi, anche un impegno cinese ad aumentare la quota di importazioni dagli Stati Uniti. Poiché la Cina non sarà disposta a creare attraverso questo canale un disavanzo di partite correnti, ciò andrà inevitabilmente a generare un effetto di sostituzione sulle importazioni dall’Europa. Questo acuirà il rallentamento economico continentale, di cui Germania e Italia hanno già iniziato a vedere le prime avvisaglie. Con elezioni alle porte, ed una politica monetaria ancora moderatamente espansiva, e dunque sostanzialmente non in grado di veicolare ulteriore impulso in termini di stimolo della domanda, l’Europa, e la Germania con essa, rischia di andare violentemente a sbattere contro le contraddizioni del suo modello di crescita ‘eterodiretto’. Sarebbe invece ora di riprendere in mano il nostro destino di europei.