Il Governo Conte (non diversamente, a ben vedere, dai precedenti) ha più volte sottolineato la necessità di una accelerazione degli investimenti in infrastrutture: per rilanciare la crescita e l’occupazione nel breve termine, per sostenere la competitività del Paese e la coesione sociale nel medio-lungo termine, e per concorrere in modo significativo alla riduzione del debito pubblico aumentando il denominatore del rapporto debito/PIL.
Secondo il Global Infrastructure Outlook il fabbisogno italiano per le infrastrutture economiche (energia elettrica, strade, ferrovie, telecomunicazioni, acqua, porti e aeroporti) per il periodo 2016-2040 può essere stimato in 65/70 miliardi di dollari all’anno, per le infrastrutture sociali intorno ai 10/12 miliardi di dollari. Ma, dall’inizio della crisi ad oggi la spesa per investimenti pubblici è crollata: da 47 miliardi di euro del 2007 a 34 miliardi nel 2017, con una riduzione di circa il 27%. La caduta degli investimenti locali durante gli anni della crisi è stata del 50%, con un crollo dell’84% dal 2012, dovuto principalmente ai vincoli del Patto di stabilità interno anche in correlazione all’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione.
Può l’Italia recuperare con le sue sole forze?
Nel settore delle infrastrutture, come e ancor più che in altri, è pressoché pacifico che l’Italia da sola non ce la possa fare. Non dispone di sufficienti risorse pubbliche; non è in grado di attrarre sufficienti capitali privati. La competizione globale, in questo settore, sarà infatti durissima.
Nel solo settore delle infrastrutture materiali di rete (strade, ferrovie, porti, aeroporti, acquedotti, infrastrutture di telecomunicazione), e solo per mantenere il ritmo di crescita attuale, sarà necessario colmare, secondo il McKinsey Global Institute, un “gap negli investimenti infrastrutturali” di poco inferiore al 4% del Pil mondiale, corrispondente a circa 3,7 trilioni di dollari all’anno di qui al 2035. Altri 1,000 miliardi all’anno saranno necessari per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dall’ONU; e almeno altrettanti per colmare il gap nelle infrastrutture sociali (scuole, ospedali, edilizia sociale, rifiuti).
Modernizzazione e manutenzione delle infrastrutture esistenti; sostituzione dei c.d. “stranded asset” (gli asset superati dal progresso tecnologico); nuove infrastrutture per affrontare le sfide della demografia e del cambiamento climatico; progetti e attività di ricerca, formazione, trasferimento tecnologico necessari per far fronte ai c.d. mega trends dovuti al cambiamento scientifico-tecnologico, alla globalizzazione e ai flussi migratori: tutti richiederanno grandi investimenti. L’Europa si dovrà confrontare con le altre grandi economie del mondo. Nessuno dei Paesi europei potrà fare da solo. La dimensione sarà cruciale, in un ambiente competitivo globale in costante cambiamento.
Qual è il contributo europeo?
In Europa, dal 2007 ad oggi gli investimenti, sia pubblici che privati, sono diminuiti del 20 per cento. Nell’ambito degli investimenti pubblici ben il 75 per cento della riduzione è dovuto, anche in Europa, alle opere realizzate dalle amministrazioni locali che, nella media europea, rappresentano intorno ai 2/3 del totale degli investimenti pubblici.
Le opere infrastrutturali strategiche sono diminuite molto meno delle opere piccole e medie grazie anche al Piano di Investimenti per l’Europa” o “Piano Juncker” e agli interventi finanziari della Banca Europea per gli Investimenti, spesso in collaborazione con le Banche Promozionali di Sviluppo nazionali (CDP in Italia). Il Piano Juncker è riuscito a mobilitare ad oggi risorse pubblico-private pari a circa 360 miliardi (ad ottobre 2018) e altri 185 miliardi sono programmati entro la fine del 2020.
Per quanto riguarda l’Italia, il Piano Juncker ha finanziato 150 progetti pari a 9,4 miliardi di euro. In particolare, con finanziamenti pari a 6,9 miliardi sono stati finanziati 80 progetti di sviluppo infrastrutturale, mentre 2,5 miliardi sono stati destinati al finanziamento delle piccole e medie imprese e delle start-up.
Oltre al Piano Europeo per gli Investimenti, la UE svolge la sua attività regolarmente in tutti i paesi dell’Unione attraverso la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) fondata con il Trattato di Roma nel 1957 e partecipata da tutti i paesi dell’Unione. Oggi è la maggiore banca multilaterale del mondo e finanzia o co-finanzia a tassi “favorevoli”, grazie all’emissione di titoli AAA (quindi con un costo della raccolta molto basso), circa 65 miliardi di euro all’anno di investimenti in Europa, di cui l’Italia è uno dei maggiori beneficiari. Nel corso del 2017, l’investimento totale del Gruppo BEI (che include anche il Fondo Europeo degli Investimenti dedicato principalmente alle PMI) è stato di 12,3 miliardi distribuiti tra finanziamenti infrastrutturali (2,3 miliardi) finanziamenti rivolti alle piccole e medie imprese (5,1 miliardi), finanziamenti all’ambiente (2,9 miliardi), e finanziamenti destinati allo sviluppo tecnologico e all’innovazione (1,9 miliardi).
Altro strumento di sostegno europeo agli investimenti è rappresentato dai Fondi Strutturali e di Coesione dedicati principalmente alle aree meno sviluppate dell’Unione. Nel ciclo 2014-2020, l’Italia ne è stata la seconda beneficiaria, dopo la Polonia, con 21 miliardi di euro. Nel nuovo ciclo 2021-2027, che verrà discusso e approvato prima della fine della attuale legislatura europea, maggiori risorse verranno dedicate a progetti di partenariato pubblico-privato per ridurre (attraverso il c.d. blending) i costi delle opere per le amministrazioni pubbliche e rendere più “bancabili” i progetti.
Cruciale è stato anche il ruolo svolto dalla Banca Centrale Europea (BCE) che, attraverso politiche monetarie accomodanti (bassi tassi di interessi e QE con 2,560 miliardi di euro di acquisti), ha permesso il finanziamento bancario di progetti infrastrutturali a tassi moderati, facendo ripartire gli investimenti, evitando la paralisi dei mercati ed infondendo fiducia a cittadini ed imprese.
Attraverso questi strumenti, l’Unione Europea ha dunque contribuito a contenere la pur drammatica riduzione degli investimenti infrastrutturali in Italia. Ma è necessario, per rilanciarli, fare molto di più.
InvestEU: priorità alle infrastrutture sociali e allo sviluppo sostenibile dei territori
Sul versante europeo, le speranze sono riposte nel nuovo Piano europeo per gli investimenti denominato InvestEU. Partirà nel 2021 e durerà sette anni attivando 650 miliardi di euro di investimenti– di cui 154 nelle infrastrutture sostenibili, 154 nella ricerca e lo sviluppo, quasi 55 nelle infrastrutture sociali e 160 a sostegno delle PMI. InvestEU capitalizzerà sull’esperienza del Piano Juncker, migliorando e semplificando in vari aspetti il Piano precedente. Maggiore focus viene dato, per esempio, alle infrastrutture sociali e, in generale, alle opere piccole e medie che si realizzano sul territorio, come recentemente auspicato dal Rapporto Prodi.
Anche la progettata nuova capacità finanziaria della zona Euro dovrebbe, tra l’altro, mobilitare risorse per il finanziamento di progetti infrastrutturali, sia pure, probabilmente, limitati alle infrastrutture cross-border di interesse europeo.
Preparare il terreno per nuovi investimenti infrastrutturali
Ma dall’Unione può arrivare non solo un contributo diretto alla riduzione dell’investment gap infrastrutturale italiano, ma anche un aiuto indiretto, uno stimolo a rimuovere gli ostacoli che tuttora limitano la capacità di attrazione di capitali e finanziamenti nelle infrastrutture italiane, e in ispecie nei progetti greenfield. Già nella impostazione del Piano Juncker era presente questo obiettivo; esso muoveva, infatti, dalla constatazione che l’Europa e i suoi principali Stati membri, a causa degli elevati debiti pubblici, degli effetti dell’invecchiamento della popolazione sui costi del welfare, e dei costi degli investimenti necessari per fronteggiare il cambiamento climatico, non potrà finanziare che in parte il suo gap infrastrutturale con risorse di bilancio, e dovrà dunque attrezzarsi a competere sul mercato dei capitali privati interessati all’asset class infrastrutturale.
Essenziali sono al riguardo una serie di fattori (e di riforme) che attengono:
- al quadro politico e regolatorio (stabilità politica, semplicità e rapidità delle procedure di decisione programmazione e autorizzazione, ridotti costi regolatori e burocratici, moderata pressione fiscale, snellezza e affidabilità dei controlli, rapidità e prevedibilità delle procedure giudiziarie, flessibilità dei rapporti di lavoro, qualità dei sistemi formativi);
- alla qualità dei progetti infrastrutturali (e dunque alle competenze tecniche e finanziarie delle amministrazioni committenti);
- alla equa e corretta ripartizione dei rischi tra pubblico e privato nei PPP;
- al contenimento dei fenomeni corruttivi.
Alcuni passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni o sono in corso a livello nazionale (e così per es. nella legge di bilancio per il 2019 con l’introduzione di strutture di consulenza ed assistenza tecnica idonee a sostenere le amministrazioni pubbliche nella pianificazione, sviluppo, strutturazione e monitoraggio dei progetti infrastrutturali) e a livello europeo (con una prima rimodulazione della direttiva Solvency II, intesa a favorire l’allocazione a investimenti infrastrutturali di una parte degli impieghi delle società di assicurazioni).
Molto tuttavia resta da fare:
- a livello nazionale: per semplificare le procedure, ridurre il rischio politico e regolatorio, contenere le complicazioni e gli oneri burocratici, accelerare le procedure di controllo e i procedimenti giudiziari, mitigare i costi fiscali;
- e anche a livello europeo o internazionale: per rimodulare le normative contabili o prudenziali che tuttora penalizzano gli investimenti di lungo termine in infrastrutture e nell’economia reale e di fatto incentivano gli investimenti finanziari speculativi a breve (pensiamo per es. alle due Direttive CRD IV per le banche, e Solvency II per le compagnie assicurative, e alle regole internazionali IFRS per banche ed altri intermediari finanziari).
Infine, se è vero che la UE ha buone ragioni per favorire e supportare un modello di finanziamento delle infrastrutture che possa – attirando capitali di lungo periodo sui mercati europei ed internazionali – pesare il meno possibile sui bilanci pubblici dei Paesi Membri, è anche vero che la piena implementazione di questo modello sta richiedendo tempi troppo lunghi. Nel frattempo, un maggior ruolo non può che essere svolto da investimenti pubblici: ma regole fiscali molto rigide li hanno penalizzati proprio in una fase in cui invece andavano rafforzati e accelerati. Andrebbe, quindi, introdotta una maggiore “flessibilità fiscale”, soprattutto per certe tipologie di infrastrutture, come quelle sociali e di tutela del territorio, che attengono alla sicurezza e alla qualità della vita delle persone e che vengono maggiormente percepite come indifferibili dai cittadini. Troppi anni di austerità rischiano di indebolire la competitività dell’Europa e il benessere dei suoi cittadini. E rischiano di allontanare gli europei dall’Europa.