Genesi dei sentimenti anti-europei

Fra il 2007 e il 2009, i paesi avanzati hanno attraversato una delle più gravi crisi finanziarie ed economiche degli ultimi cento anni. Questa crisi ha avuto un ulteriore impatto sull’Unione europea e, soprattutto, sull’euro-area determinando una crisi del settore bancario europeo e una crisi dei bilanci pubblici degli stati membri più fragili che si è sostanziata in una seconda e lunga recessione fra gli ultimi mesi del 2011 e la prima metà del 2013. Il fatto che, negli ultimi dodici anni, una parte significativa degli europei abbia vissuto quasi il 60% della propria vita quotidiana in paesi con difficoltà macroeconomica e ne abbia pagato – per molti versi – lo scotto in termini occupazionali e retributivi, contribuisce a spiegare perché sia maturata una forte critica verso le istituzioni europee. Solo la recente ripresa economica (dalla metà del 2013) ha portato a una valutazione più equilibrata dei vantaggi derivanti dall’unione monetaria e dal mercato unico. In Italia, che ha avuto una ripresa ritardata (dal 2015) e rischia di entrare prematuramente in recessione (dalla metà del 2018), tale ripensamento ha migliorato il gradimento dei nostri connazionali nei confronti dell’Unione europea ma non sembra aver ancora eroso il sostegno alle politiche anti-europee della coalizione governativa.

Questi atteggiamenti critici colgono rilevanti fatti oggettivi. È innanzitutto vero che, prima delle recenti crisi, gli assetti istituzionali dell’Unione europea e dell’euro-area non erano predisposti per gestire problemi sistemici in grado di colpire diversi paesi e di metterne in discussione la stabilità. È inoltre innegabile che, quando tale carenza di fondo è diventata evidente (fine 2009), i responsabili politici e istituzionali europei hanno tardato a reagire: per parafrasare il titolo di un film del regista Spike Lee, le soluzioni sono state trovate solo alla venticinquesima ora. Per giunta si è trattato, troppo a lungo, di soluzioni ‘caso per caso’ o temporanee. È infine vero che i ritardi e la scarsa sistematicità delle soluzioni individuate sono spesso sfociate nell’imposizione di costi economici e sociali eccessivi rispetto ai paesi che erano in difficoltà e che avevano bisogno di un aiuto.

Meglio tardi che mai…

Detto ciò, va anche riconosciuto che in Europa si sono realizzati progressi almeno altrettanto rilevanti. Dopo essersi faticosamente avviata, la reazione delle istituzioni europee alle crisi recenti ha infatti prodotto innovazioni e cambiamenti radicali nell’organizzazione dell’area. In poco più di dieci anni e nonostante lunghe fasi di stallo, l’Unione europea ha saputo attuare trasformazioni ancora più rilevanti di quelle realizzate nei quaranta anni intercorsi fra la creazione del primo embrione di Comunità europea (la CECA del 1951) e la vigilia del varo dell’Unione europea e del processo di costruzione dell’unione monetaria (1992). Prova ne sia che, fino al 2006, neppure il più visionario europeista avrebbe pensato che, nell’arco di pochissimi anni, si sarebbe arrivati ad avviare: un meccanismo permanente per la gestione delle crisi di singoli paesi dell’euro-area e per il sostegno a un loro più equilibrato sviluppo; una vigilanza europea unica dei settori bancari e una gestione unica delle crisi bancarie più significative; un’evoluzione della banca centrale europea (BCE) che, forzando il suo mandato senza infrangerlo, la ponesse come acquirente dominante di titoli europei del debito pubblico sui mercati finanziari; un coordinamento fiscale così stretto da sollecitare l’istituzione di un Ministero europeo dell’Economia e delle Finanze. Viceversa, il cosiddetto fondo europeo ‘salva stati’ è stato approvato alla fine del 2010 ed è diventato operativo nel 2012; seppure in forme incomplete, la vigilanza europea del settore bancario è diventata operante dalla fine del 2014; dall’inizio del 2015, la BCE ha attuato una politica non convenzionale per un massiccio acquisto di titoli pubblici degli stati dell’euro-area; il progetto della Commissione europea di dicembre 2017 ha posto in primo piano il rafforzamento della gestione accentrata delle crisi di singoli paesi europei, il sostegno dei progressi dei paesi più fragili, il maggior coordinamento delle politiche nazionali di bilancio fino – appunto – alla creazione di un ministro europeo dell’Economia destinato a gestire uno specifico bilancio per l’euro-area.

Purtroppo, questi straordinari passi avanti non possono cancellare i limiti delle prime risposte europee alla crisi del 2010-’13. Come mostra il caso della Grecia, quelle risposte hanno avuto un impatto sociale molto negativo che sarà riassorbito solo nel corso del tempo; le tante iniziative positive elencate e – almeno in parte – realizzate sono, invece, presidi che porteranno frutti sociali tangibili solo allo scoppio della prossima crisi e solo se saranno completati in modi soddisfacenti prima di quell’evento negativo.

Tale conclusione sembra chiedere al lettore un atto di fede europeista del tipo: “bisogna ammetterlo, negli anni scorsi le cose non hanno funzionato bene; ma, credetemi, nel futuro funzioneranno molto meglio”. Altre considerazioni, che sono state fino a qui trascurate, cambiano però la prospettiva e rendono concreti i vantaggi ottenuti dall’Unione europea e dall’unione monetaria. Si tratta di chiedersi cosa sarebbe accaduto se, dopo la crisi finanziaria ed economica del 2007-’09, non fosse esistita l’area dell’euro. La Grecia e gli altri paesi europei più fragili (Italia e Spagna incluse) sarebbero stati isolati dai mercati internazionali e avrebbero avuto una sola possibilità di reazione: finanziare il loro debito pubblico e privato con immissioni massicce di liquidità decise dal governo nazionale ed effettuate da una banca centrale ormai subordinata al potere politico. Questa strategia avrebbe causato, anche nel breve termine, tassi di inflazione e di svalutazione della moneta nazionale fuori controllo con impatti intollerabili sulle fasce più povere della popolazione. Nel medio termine, i fenomeni descritti sarebbero sfociati in un’instabilità economica insostenibile.  

L’effettiva conclusione da trarre è, quindi, diversa da un atto di fede. Gli eccessivi costi sociali, pagati da molti paesi fragili dell’euro-area durante la crisi, hanno costituito un male – almeno in parte – evitabile; ma tali costi sono stati comunque minori rispetto a quelli che si sarebbero pagati al di fuori di un’unione economica e monetaria.