Le multinazionali della digital economy – tra tutte i cosiddetti GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple) ma anche giganti cinesi come Alibaba e Tencent – realizzano in Europa fatturati rilevantissimi, ma vi pagano poche imposte.

Ciò accade perché le attuali regole fiscali sono state elaborate per un’economia di tipo tradizionale, consentendo di tassare i ricavi ottenuti in Paesi diversi da quelli di residenza dell’impresa solo se l’impresa ha all’estero, una o più sedi fisse.

Ma le grandi imprese digitali non hanno più bisogno di stabilimenti o capannoni con migliaia di operai per vendere i loro servizi in tutto il mondo e ciò consente loro di sottrarsi con facilità alle pretese fiscali dei Paesi in cui realizzano il fatturato. Oggi le imprese digitali attive nell’Unione europea pagano in media un’aliquota del 9,5 per cento contro il 23,2% pagato dalle imprese tradizionali.

In Europa, e non solo, sono oggi in corso discussioni per trovare una misura condivisa che adegui le regole fiscali alla trasformazione digitale dell’economia, ripristinando – anche per le imprese digitali – la correlazione tra luogo di produzione degli utili e luogo della loro tassazione. È una questione di equità e efficienza fiscale.

Fare squadra per vincere 5 miliardi di euro

Nel marzo scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva volta a introdurre, dal 1° gennaio 2020, un sistema comune d’imposta sui servizi digitali (ISD) applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali, caratterizzati dalla particolare interazione degli utenti.

L’imposta si applicherebbe alle imprese con fatturato mondiale annuo di 750 milioni di euro di cui almeno 50 milioni nella Ue e colpirebbe, con aliquota del 3%, i ricavi lordi derivanti dalla vendita di spazi pubblicitari online, dai servizi di intermediazione digitale (piattaforme digitali cd. “multi-sided”) che consentono agli utenti di interagire con altri utenti e che possono facilitare la vendita diretta di beni e servizi tra gli stessi utenti, dalla vendita di dati generati dalle informazioni fornite dagli utenti.

L’imposta dovrebbe essere pagata nei Paesi in cui si trovano gli utenti dei servizi digitali, identificati in base all’indirizzo IP dei dispositivi utilizzati per accedere ai servizi o, se disponibili, ad altri strumenti di geolocalizzazione. L’imposta sui servizi digitali genererebbe un gettito pari a 5 miliardi di euro e rappresenterebbe la prima pietra di quell’armonizzazione fiscale europea che continua a sembrare un miraggio.

Le decisioni europee in materia fiscale necessitano però di un voto unanime da parte di tutti gli Stati membri e l’accordo sembra ancora lontano: Irlanda e Olanda, che hanno garantito rilevanti agevolazioni fiscali alle grandi compagnie tecnologiche temporeggiano; la Germania, inizialmente tra i principali sostenitori della web tax europea, è stata indotta a una brusca frenata dal timore di ritorsioni commerciali statunitensi contro le sue esportazioni. Il ministro francese Le Maire aveva anche proposto una soluzione di compromesso per rendere “temporanea” la soluzione europea e sostituirla poi con una misura a livello globale che coinvolgesse tutti i paesi OCSE.

Chi spinge e chi frena sulla Web tax

Al recente Ecofin del 4 dicembre scorso però i ministri finanziari dei 28 Paesi dell’Unione europea non sono riusciti a trovare un accordo e anche la Francia, sulla scia della Germania, sembra essersi sfilata. Anzi, Francia e Germania hanno rilanciato, presentando una nuova proposta di digital tax, molto depotenziata rispetto alla precedente e circoscritta alla tassazione del fatturato di pubblicità online delle grandi società digitali (come Google e Facebook). Risulterebbero invece escluse sia le attività di vendita dei dati personali forniti dagli utenti sia le attività legate all’utilizzo delle piattaforme online (come Amazon); attività sulle quali la scelta di tassare o meno verrebbe rimessa ai singoli Stati nazionali.

Francia e Germania sono concordi perché questa soluzione di compromesso si traduca in una proposta di direttiva nel 2019 ed entri in vigore il 1° gennaio 2021.

A questo punto, dei Paesi europei che avevano deciso di introdurre comunque una web tax nazionale resta – oltre alla Gran Bretagna in piena Brexit – solo l’Italia, la quale aveva già previsto l’introduzione di una web tax nazionale, salvo poi posticiparne l’attuazione al 1° gennaio 2019 in attesa dell’evoluzione della proposta europea.

Ancora una volta è stata persa l’occasione di fare fronte comune e trovare una soluzione europea: peccato, questa era una partita che andava giocata in squadra. In ordine sparso rischiamo tutti di perdere.